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Lettera aperta
dei cooperatori ai caregiver
Che non sarebbe finita domani lo sapevamo tutti. Ma sentircelo dire dal Presidente del Consiglio dei ministri, in una delle tante dirette serali a reti unificate di cui ormai temiamo anche il solo annuncio, è un’altra cosa.
Avere la certezza che dovremo essere ancora costretti e confinati in appartamento, che non potremo uscire se non per le necessità vitali, che dovremo stare ancora lontani da parenti e amici, ha acuito il senso di soffocamento e lo sconforto di noi tutti e ha minato le nostre poche certezze di riuscire davvero a resistere, fino a quando l’incubo non cesserà.
Abbiamo pianto per la rabbia e lanciato qualche maledizione al povero Giuseppe Conte, subito dopo abbiamo provato a consolarci, a stringere di nuovo i pugni e i denti, a scavare dentro noi stessi per cercare qualche residua ragione per non mollare.
Questo è successo ieri sera a noi tutti, nelle nostre case.
Ora però fermiamoci un momento e proviamo a immaginare cosa può essere successo lontano da noi, lontanissimo, in luoghi dove questo stesso annuncio è arrivato a persone con ridotte o diverse capacità motorie, intellettive e sensoriali.
Così come a loro, la notizia del protrarsi di questo stato di emergenza è arrivata ai loro familiari, alle loro mamme, ai loro papà, alle loro sorelle e ai loro fratelli. È arrivata a persone abituate da sempre ad assumersi il maggior carico della cura, ma che in tempi normali, per lo meno, ricevono stabilmente assistenza, aiuto, attenzioni, vicinanza, e che adesso si trovano e si sentono segregate dentro le mura domestiche come se fossero in una cella d’isolamento.
Le pensiamo lontanissime: invece queste persone abitano nelle nostre
stesse città, nei nostri paesi, nei nostri quartieri, nei nostri palazzi.
Sono i vicini della porta accanto, e sono molti di più di quanto immaginiamo.
Persone che stanno vivendo una situazione straziante che, protraendosi, diventerà insostenibile. Persone che ricevono come un insulto l’invito ad approfittare di restare a casa per leggere un libro in più, per guardare il film che avrebbero voluto rivedere da anni, per riscoprire passioni e hobbies dimenticati e sepolti, perché non hanno un minuto di tempo, perché l’obbligo della cura si prende tutto e non lascia un attimo per sé, perché le crisi sono dietro l’angolo, l’ansia di non riuscire a reggere è altissima e lo stress della tenuta di equilibri delicati, a maggior ragione dentro spazi angusti, non ti abbandona mai.
Queste persone noi le conosciamo bene perché siamo
accanto a loro sempre in tempi normali.
Sono persone straordinarie che ci sorprendono di continuo per i loro giacimenti di energie nascosti e d’improvviso svelati da un gesto o una parola che ci rimangono attaccati addosso, per gli abissi di rabbia e le vette di incredibile buonumore e ottimismo, per la loro capacità di apprezzare ogni piccola cosa.
Sono persone di fronte alle quali le nostre beghe quotidiane ci sembrano degli affarucci piccoli così.
Queste persone, oggi più che mai, hanno bisogno di aiuto.
Se crollassero loro, insieme a loro crollerebbe il mondo.
Vogliamo essere chiari: non ci piace il lessico bellicista che da quando è scoppiata l’epidemia da coronavirus sta permeando il nostro linguaggio e il nostro pensiero. Questi continui rimandi alle trincee, agli eroi, al nemico, all’economia di guerra. Siamo d’accordo con Annamaria Testa, che ha pubblicato tre giorni fa su Internazionale un articolo il cui titolo è un incitamento diretto: “Smettiamo di dire che è una guerra”. «Non è una guerra ed è pericoloso pensare che lo sia perché in questa cornice risultano legittimate derive autoritarie». Quel che sta succedendo a Budapest ci preoccupa tanto quanto quel che sta succedendo a Bergamo, a Madrid e a New York.
Però, se per individuare le priorità bisogna riferirsi alle prime linee, ebbene: le case delle persone disabili e i loro caregiver sono una prima linea, non meno di quanto lo siano gli ospedali, le farmacie e le dispense di generi alimentari. Vanno tutelate non meno dei pazienti positivi e dei medici e degli infermieri che stanno cercando di salvarli. Hanno bisogno di essere protette e di non sentirsi sole.
Con questa lettera aperta vogliamo rivolgerci a loro.
Vogliamo essere con voi, a maggior ragione adesso che la prospettiva di uno stato di emergenza che non finirà presto si sta verificando: è realtà.
Il decreto-legge Cura Italia ci offre una possibilità concreta per offrirvi continuità e vicinanza. C’è un articolo, il 48, che, se ben applicato, può diventare una parte importante della soluzione. Alcune associazioni di advocacy ne stanno osteggiando l’applicazione. Temono che ai caregiver verranno tolti i servizi e le poche risorse su cui hanno contato finora. Dicono: se i servizi non potranno esserci dati adesso, ci rimanga il credito, che spenderemo quando la situazione tornerà alla normalità.
Ma questa è un’illusione. Ci vorrà ancora molto tempo
perché si esca davvero dall’emergenza. Quel credito si accumulerà e non verrà
speso. Finirà, direttamente o meno, a coprire altre necessità. Paradossalmente
potrebbe finire per sostenere i fondi di integrazione salariale e gli
ammortizzatori sociali per erogare gli assegni agli operatori, agli educatori e
ai riabilitatori delle cooperative.
Non prendiamoci in giro: la coperta è una, ed è corta. Quando l’emergenza cesserà, non ci saranno soldi residui o tesoretti nascosti in reconditi forzieri.
Noi non vogliamo accedere alla cassa integrazione, in qualsiasi modo la si chiami. Vogliamo fare il nostro lavoro di sempre, sollevarvi dal carico di cura. Vogliamo essere con voi, facendo ricorso ad una o a più delle diverse modalità di servizio che l’articolo 48 delinea.
L’articolo 48 dice proprio questo: non dice che si debbano sospendere i servizi, anzi dice che vanno realizzati tutti anche se con modalità diverse.
Dice che le pubbliche amministrazioni debbono rimodularli e che debbono farlo co-progettando, cioè coinvolgendo tutti gli interessati. Dice che le imprese che realizzano i servizi, quasi sempre imprese non profit come le cooperative sociali, vanno sostenute anch’esse, riconoscendo loro gli importi interi già contrattualizzati, secondo una modalità che chiamiamo “vuoto per pieno”, ma che per noi è da intendersi come l’ultima possibilità. Vogliamo infatti essere sostenuti per quel che facciamo, non per quello che non facciamo.
Le imprese sociali sono un po’ come voi: dei pilastri del sistema nazionale. Se crolliamo noi, con noi crolla un bel pezzo di mondo.
Nel Lazio c’è una straordinaria possibilità che è passata sotto silenzio, o a cui non è stata data abbastanza risonanza. È una deroga, di cui si è assunta la responsabilità la Direzione regionale delle politiche sociali, per permettere alle persone con disabilità di uscire di casa più spesso di quanto possano farlo gli altri. Anche una semplice passeggiata, per chi soffre di autismo o disturbi psichiatrici, è preziosa. Anche una boccata d’aria è terapeutica.
La nostra proposta non è soltanto di convertire i servizi di assistenza educativa e scolastica o quelli dei centri diurni e semi-residenziali in servizi domiciliari o a distanza. È anche quella di uscire insieme fuori di casa con i vostri figli e nipoti, o con i vostri genitori, laddove le loro capacità lo permettano, e – in una condizione di piena sicurezza e protezione dai rischi di contagio – sollevare voi dal carico di cura per qualche ora ogni giorno.
Noi vogliamo esserci e ci siamo.
Contiamo di poterlo fare insieme a voi.
Immagini
I quadri di quest’articolo sono opera di Paul Klee.
Nell’ordine Città fredda (1921), Messaggero d’autunno (1922), Tre case (1922), Ponte rosso (1928), Castello
e sole (1928) e Studio di un albero
in fiamme (1928).
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